Santa Sofia d'Epiro (Shën Sofia in arbëreshe[3]) è un comune italiano di 2 384 abitanti[1] della provincia di Cosenza in Calabria. È situato a 558 metri di altitudine sul versante nordoccidentale della Sila Greca, sulla riva destra del fiume Crati.
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Santa Sofia d'Epiro comune | |
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(IT) Comune di Santa Sofia d'Epiro (AAE) Bashkia e Shën Sofisë | |
Santa Sofia d'Epiro | |
Localizzazione | |
Stato | Italia |
Regione | Calabria |
Provincia | Cosenza |
Amministrazione | |
Sindaco | Daniele Atanasio Sisca (Rilanciamo Santa Sofia) dal 26-5-2019 |
Territorio | |
Coordinate | 39°33′N 16°20′E |
Altitudine | 558 m s.l.m. |
Superficie | 39,22 km² |
Abitanti | 2 384[1] (31-5-2020) |
Densità | 60,79 ab./km² |
Frazioni | Acci, Castellano, Cavallo d'Oro, Mustica, Scesci, Serra di Zoto |
Comuni confinanti | Acri, Bisignano, San Demetrio Corone, Tarsia |
Altre informazioni | |
Cod. postale | 87048 |
Prefisso | 0984 |
Fuso orario | UTC+1 |
Codice ISTAT | 078133 |
Cod. catastale | I309 |
Targa | CS |
Cl. sismica | zona 2 (sismicità media)[2] |
Nome abitanti | sofioti (in lingua arbëreshe Shënsofjotë) |
Patrono | Sant'Atanasio (Shën Thanasitë), Sofia Martire (Shën Sofia) |
Giorno festivo | 2 maggio, 30 settembre |
Cartografia | |
Posizione del comune di Santa Sofia d'Epiro all'interno della provincia di Cosenza | |
Sito istituzionale | |
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È un comune arbëreshë (italo-albanese) della Calabria e conserva ancora oggi le tradizioni trasmesse dagli albanesi stanziati nel comune, quali l'antica lingua albanese, il rito bizantino-greco (proprio degli arbëreshë), i costumi, gli usi e le tradizioni tipiche.
Inserita in una riserva naturale, mantiene la sua fisionomia architettonica medievale d'origine, con una forte impronta balcanica[4]. Oltre ad un importante museo del costume albanese, è presente un'accademia dell'arte e della musica. Numerosi sono i gruppi che si applicano alle ricerche metriche musicali, e due in particolare dall'inizio del secondo millennio suonano e cantano in albanese, riprendendo i canti tradizionali polivocali e la tradizione musicale e culturale arbëresh[5].
La fondazione di Santa Sofia d'Epiro è anteriore alla venuta degli albanesi di rito bizantino (o greco) provenienti dalla regione della Ciamuria (Epiro) nella Calabria Settentrionale alla fine del XV secolo[6], essa fu infatti costruita vicina ad una piccola masseria abbandonata preesistente.
Il vasto arco di colline che si estende a nord-est di Bisignano e scende fino al fiume Crati, fu diviso fin dal Medioevo in cinque grosse contrade: la Terra di Santa Sofia ed i casali di Musti, Appio, San Benedetto e Pedilati, infeudate ai vescovi di Bisignano da Papa Celestino III con la bolla del 13 aprile 1192 e dal re di Napoli Tancredi IV. Altri riferimenti archivistici ci informano dell'esistenza di questi piccoli centri abitati: in un registro contabile nel 1268, tra "Sanctus Benedictus" e "Alimusti" è inserito il nome di "Sancta Sofia" seguito da "Apium"; nel 1269 secondo una cedola angioina la popolazione di Santa Sofia risulta composta da 213 persone; nel 1276 il numero ufficiale di fuochi (famiglie) del casale è di 50; nel 1331 dalla Platea dell'archivio Vescovile di Bisignano abbiamo notizie del Casale di Pedilati.
Un'altra importante conferma si trovava in un'iscrizione risalente all'epoca di Mario Orsini, vescovo di Bisignano (1611-1624), collocata nel Palazzo dei Vescovi Baroni di Santa Sofia, nel 1622 uno dei suoi successori, Mons. Bonaventura Sculco (1745-1780), fece fortunatamente riprodurre nel 1750 in un atto notarile prima che venisse distrutta durante i lavori di ampliamento del palazzo.
Riguardo all'origine bizantina di Santa Sofia si deve effettivamente considerare che verso l'anno 869 i Bizantini fecero irruzione nei confini del Principato Longobardo di Salerno occupando Cosenza, Bisignano e Rossano, è probabile quindi che un esiguo gruppo di soldati fermatosi sulle colline poco lontane da Bisignano, avrebbe dato origine ad un minuscolo nucleo di abitazioni, attribuendogli il nome di Santa Sofia. Dopo un iniziale momento di sviluppo e di accrescimento demografico le cinque borgate vennero spazzate via dalla tremenda epidemia di peste che infierì sulla Calabria alla metà del XIV secolo, i danni della peste furono aggravati dai numerosi terremoti, tra i quali il più disastroso fu quello del 1450.
I feudi del Vescovo di Bisignano rimasero desolatamente vuoti ma, ciò che più conta, assolutamente improduttivi, fu questo uno dei motivi per cui Mons. Giovanni Frangipani, Vescovo di Bisignano dal 1449 al 1475, favorì dal 1472 nelle sue terre, l'insediamento di un gruppo di albanesi provenienti dall'Epiro. Negli stessi anni Girolamo Sanseverino (1471-1478) era Principe di Bisignano.
La già citata epigrafe del 1622 del Palazzo Vescovile (1595) di Santa Sofia faceva risalire l'insediamento della Comunità di Albanesi a 150 anni prima della collocazione dell'iscrizione, ovvero nel 1472. Da questo momento gli Albanesi si trovarono irrimediabilmente invischiati nella rete di obbligazioni e tributi fiscali che gravavano sulle popolazioni dell'Italia Meridionale in quel particolare momento storico. Essi risultarono sottomessi sia al Vescovo di Bisignano che al Principe Sanseverino e ad ambedue dovevano corrispondere decime su tutte le loro attività. Inoltre il Vescovo esercitava sulla popolazione la giurisdizione civile e religiosa, mentre il Principe controllava l'ordine pubblico nel feudo.
Per regolarizzare la loro posizione giuridica e per difendersi dai soprusi dei gabellieri, gli albanesi di Santa Sofia contrassero nel 1530 Capitolazioni con il Principe di Bisignano Pietro Antonio Sanseverino, redatte in Morano il 1º agosto 1530. Nel 1586 i Sofioti stipularono altri statuti con il Vescovo Mons. Domenico Petrucci (1584-1598) e precisamente il 26 settembre 1530 in Bisignano presso il Notaio Marcello Baccario. Altro importantissimo documento è la Platea dei beni dell'episcopato bisignanese, redatta dal canonico tesoriere della cattedrale Mons. Francesco Domenico Piccolomini (1492-1530).
In questo atto si leggono i fuochi che costituivano i casali di Santa Sofia (77 fuochi) e di Pedilati (29 fuochi). Nel 1543 gli abitanti di Pedilati, per protesta contro l'eccessivo fiscalismo, bruciarono Casale e si stabilirono in Santa Sofia che contava ormai 96 fuochi, circa 296 abitanti. Durante il principato di Bernardo Sanseverino iniziò la decadenza economica della florida dinastia dei signori di Bisignano, le difficoltà finanziarie della Casa divennero ancora più evidenti sotto il suo discendente Carlo Mario Sanseverino che, per rimediare alle dissolutezze del padre, si vide costretto a svendere numerosi feudi che costituivano il suo patrimonio.
Il Casale di Santa Sofia fu dal 1517 al 1572 feudo di Casa Sanseverino per poi passare ai Milizia per poi tornare ad essere feudo di Casa Sanseverino Principi di Bisignano[7].
Per quanto riguarda il resto del XVIII secolo, lo stato della ricerca storica è ancora incompleto e frammentario, si può quindi affermare che, generalmente fra gli abitanti del casale regnava uno stato di povertà diffusa, a cui sfuggiva una piccola porzione costituita da nobili locali e proprietari terrieri e dalla numerosa classe dei clerici, possessori di mulini ad acqua, vigneti e gelseti. Nel XVIII secolo, grazie anche al miglioramento delle condizioni culturali favorito dall'apertura del collegio italo-greco "Corsini", prima a San Benedetto Ullano, poi a San Demetrio Corone, si sviluppò gradualmente una nuova classe sociale di ceto medio-borghese,ciò determinò come conseguenza una più forte differenziazione sociale fra gli abitanti di Santa Sofia.
Si può ancora oggi individuare questo importante movimento sociale dalla costruzione di numerosi palazzotti "nobiliari" pervenutici nelle sistemazioni del XIX secolo, ma sicuramente iniziati e presenti fin dal secolo XVII, che differenziandosi dal semplice tessuto urbanistico del villaggio, evidenziano lo stato di agiatezza raggiunto da alcune famiglie. Da questi casati provengono figure che hanno reso importante il paese: Pasquale Baffi, Angelo Masci e Mons. Francesco Bugliari, propensi ad accogliere e diffondere le nuove idee del Secolo della Ragione anche a costo della propria vita. Nel secolo del Risorgimento furono numerosi gli italo-albanesi di Santa Sofia d'Epiro che lottarono per l'indipendenza e per l'Unione della Nazione italiana, dichiarandosi sostenitori della dinastia sabauda contro quella borbonica, la quale trovò fiero sostegno solo in poche famiglie. A conferma di ciò, nel 1861, storico anno del Plebiscito per l'Unità d'Italia, i 352 votanti di Santa Sofia d'Epiro iscritti nelle liste elettorali si espressero quasi all'unanimità per l'annessione dal vecchio Regno delle due sicilie al nuovo Regno Sabaudo.
Il centro Antico di Santa Sofia d'Epiro è allocato lungo una linea che si sviluppa da Est verso Ovest, da fonti filologiche sappiamo che nell'area di Ovest, zona adiacente all'attuale chiesa di Santa Sofia (Qisha Vjeter) (39.548479°N 16.32857°E39.548479; 16.32857), nel IX secolo sorse un minuscolo villaggio fondato da soldati greci, in seguito abbandonato o distrutto. Nel XV secolo, quando giunsero i profughi albanesi a ripopolare le cinque contrade sterminate dalla peste nera, strategicamente si insediarono nei pressi della chiesa vecchia (Santa Sofia – Terra), mentre, con molta probabilità, un secondo gruppo si accampò sul fianco Est.
Un secondo gruppo si insediò nei casali adiacenti ma non ebbero florida energia per durare la loro permanenza, motivo per il quale si diffuse in località Pedalati dove a ricordo poi fu edificata la chiesa di Santa Venere (39.545123°N 16.323789°E39.545123; 16.323789).[8] Infatti su queste aree vi sono le prime presenze della microstrutture urbane di chiara matrice estrattiva.
Lo spazio urbano che originò il primo nucleo insediativo, con molta probabilità, riciclava le impronte tipiche dei gruppi familiari allargati arbanon, realizzando i quattro rioni tipici, l'origine di tutti i paesi dei Balcanica: Chisa, Bregu, Sheshi e Katundi, sono rispettivamente i fondativi rioni; nel passaggio da famiglia allargata a famiglia urbana per rimanere uniti e non perdere il loro antico ceppo, utilizzarono una versione più moderna dell'antica Shichita, denominandola Gjitonia, noto come "il luogo dei cinque sensi". Ogni gjitonia (termine di origine greca che comunemente viene associato al termine di Vicinato, una eresia imperdonabile per quanti esprimono questo pensiero, in quanto, la Gijtonia è un modello trasversale al Vicinato, noto diffusamente all'interno di tutto il mediterraneo né tantomeno si deve cadere in errore e identificarlo come volgarmente avviene; né tantomeno ritenerlo un insieme o gruppo di abitazioni disposte radialmente su uno spiazzo comune su cui vertono gli ingressi di queste dimore: Definendo così alla stregua di uno spazi di risulta, la gjitonia; il modello sociale di ricordo e ricerca della memoria perduta, impegno sociale che ha reso gli arbëreshë la minoranza storica diffusa più longeva di tutto il mediterraneo in età moderna. Le Gjitonie quindi non sono o non si possono ricercare in elevati murari o architettonici, in quanto essa non ha confini avendo consapevolezza che i sensi si appartengono agli uomini, ma non hanno né forma e né distanza entro cui definirla. Il modulo abitativo tipico della Minoranza Storica Arbëreshë si sviluppa nel corso dei secoli e parte da una cellula tipo di forma quadrangolare di poco meno di venti metri quadri, Kaliva, pagliaio o modulo estrattivo. Le microstrutture si adagiano all'orografia propria del terreno seguendo le curve di livello e si fissano entro tre elementi fondamentali, la Kaliva il recinto e L'orto. Tale "impianto urbanistico" è totalmente estraneo alla cultura italiana. Poi, con il mutare delle opportunità lavorative e le disposizioni sociali si sviluppano e diventano Manzane, ovvero, isolati edilizi che si sviluppano secondo due sistemi aggregativi, il più antico di tipo articolato e quello seguente di tipo lineare sino ad occupare l'intero cortile delle prime presenze arbanon in Santa Sofia, è facile riconoscere tale trama, anche se molte abitazioni sono state manipolate irrimediabilmente più volte; nonostante ciò, vi sono ancora siti in cui è possibile riconoscere questo modo di organizzate.
La dimora più povere o del primo periodo; semplici abitazioni a piano terra ancora di matrice estrattiva in quanto erano semi incastonate sul declivio e caratterizzate da una falda unica del tetto che va verso l'ingresso dove sono allocate la porta gemellata a una piccola finestra (Scesci i Passionatith) dopo il 1700 il modulo cresce in altezza in quanto la disponibilità dello spazio di pertinenza è completamente utilizzato e quindi si aggiunge un piano superiore al piano terra, che è raggiungibile da una scala interna; dopo tale modifica i frazionamenti familiari e le disponibilità economiche in lieve miglioramento al modulo abitativo si aggiungono i noti profferli esterni che restringono strade e vicoli. Case nobiliari nascono dopo il decennio francese e si compongono di un primo livello a piano terra un livello nobile al primo piano liv oltre la copertura a falde e si distribuisce come segue: a piano terra si trovano i depositi dei prodotti che vengono dalla terre e gli attrezzi per la lavorazione, una serie di locali di forma quadrata molto regolari che da un lato affacciano con gli ingressi sulle piccole strade (rrugat) la cui ventilazione è assicurata da finestre a ridosso del declivio il primo di questi locali è l'ingresso dell'abitazione, attraverso una scala interna dà accesso all'alloggio, ornato da portali in pietra lavorata e affaccia nell'area comune.
Esiste una sola tipologia di gjitonì, in quasi tutto il centro antico, la cui osservazione ci fornisce diverse informazioni sul modo di concepire e organizzare la convivenza sociale in gruppi coordinati e riconosciuti come tali. Nonostante il modello sociale nel corso dei secoli, mutate le esigenze sociali ed economiche ha riposto il sistema prima nella famiglia allargata, poi in quella, detta urbana e oggi vive secondo i temi metropolitano, in quanto gli espatriati erano legati fra loro da inscindibili vincoli parentali e non di commarato, come avviene nel modello di vicinato. Per quanto riguarda i modelli urbanistici e architettonici che poi sono lo scrigno capace di proteggere e riverberare non si presenta in modo appariscente. Sino agli anni settanta del secolo scorso in lontananza era complicato scorgere nelle colline gli elevati architettonici in quanto si amalgamavano per le pigmentazioni tipiche dei prodotti naturali o composti di cui erano realizzati elevati ed orizzontamenti. Poi a sera con l'illuminazione e con le illuminazioni pubbliche e private le colline si mettevano in evidenza con segni fatti di luce e di vita arbëreshë. Le abitazioni originarie, notoriamente molto semplici, sono oggi l'espressione dei secoli e della conseguente crescita economica e sociale, prima con le note Kalive o Katoj; poi con le case a due livelli frazionate dai profferli e infine in epoca francese, ovvero durante e dopo il decennio con i noti palazzotti nobiliari, ma questa è una storia più recente e in molti casi fa perdere il senso dei sacrifici che ha sostenuto questo popolo, per essere identificato come la regione storica diffusa più solida e duratura del mediterraneo..
Un elemento estraneo alla cultura locale consiste nell'inserimento del forno condiviso da un ben identificato gruppo di famiglie. ma anche perché l'occasione della panigicazione diventava un momento di solidità sociale che andava oltre al semplice gesto della panificazione, i.
Gli edifici in cui Santa Sofia si riconosce nello corso dei secoli sono le modeste Kalive o Katij che dal, 1535 e sino agli anni settanta del secolo scorso erano conservate nella originaria configurazione stratificata anche dai terremoti il palazzo arcivescovile (15959 Le abitazioni con ingresso ai depositi con forma di architrave romanico di mattoni intonacati, le notissime abitazioni che dal 1750 vengono addobbate con i proferri per il frazionamento della proprietà e durante e in seguito al decennio francese con i palazzotti nobiliari, emulati nei modelli con profferlo che vogliono rendere nota una scelta sociale generalizzata di un gran numero di sofioti mentre la classe più povera continuerà a vivere i catoi fino alla fine degli anni sessanta per poi emigrare al nord sia dell'Italia che dell'Europa.
Sorsero così all'inizio del XVIII secolo alcuni palazzi nobiliari: Palazzo Becci e Palazzo Bugliari, nonché il cinquecentesco Palazzo dei Vescovi di Bisignano.
Abitanti censiti[9]
La Biblioteca Civica "Angelo Masci" è stata istituita il 24 marzo del 1981. Ubicata nel centro storico nel signorile Palazzo Bugliari (XIX secolo) 39.54591°N 16.329597°E39.54591; 16.329597 fino a pochi anni fa, è stata spostata presso i nuovi locali siti in via Ospizio. È dotata di uno Statuto, approvato nel 1986, conforme alla Legge Regionale nº 17/85. Didatticamente è organizzata secondo il sistema "a scaffale aperto" seguendo le norme biblioteconomiche attualmente in uso: Classificazione Decimale Dewey; Catalogazione Descrittiva; Catalogazione Semantica. La struttura gestisce con sistemi informatici il proprio patrimonio libraio che ha raggiunto 7000 unità bibliografiche. Spicca la sezione dedicata alle Minoranze Etnico Linguistiche in Calabria: Greci, Occitani e in maniera particolare alle etnie Albanesi in Italia, composta da 1500 titoli, volumi in lingua albanese, tedesca e inglese.
Presso Palazzo Bugliari è stato istituito il Museo del territorio e del costume Arbereshe. Si possono ammirare la ricostruzione fedele e completa della vestizione delle donne albanesi. La raccolta comprende vestiti giornalieri, di festa, di mezza festa nuziale e di lutto.
L'Associazione culturale Shqiponjat (Aquila in albanese) nasce nella primavera del 1994 come gruppo folcloristico su iniziativa di 12 ragazze[10] e diventa associazione culturale 10 anni dopo.
In conformità con l'emblema (Aquila bicipite) della madrepatria dei loro antenati, l'Albania, hanno scelto il nome Shqiponjat, Le Aquile.
L'obiettivo del gruppo, una formazione composta da sole donne, è quello di mantenere vivo sia l'antico valori arbëreshë che le tradizioni, incluse la musica e i costumi. Da uno studio di antichi manoscritti e dalla tradizione orale emerge che, ai tempi dell’invasione ottomana in Albania, le donne - oltre a custodire il focolare domestico – danzassero e cantassero per rendere omaggio ai propri mariti di ritorno dalle battaglie.[11]
Col passare degli anni, il numero delle componenti è cresciuto, ed oggi (2017) annovera, 30 danzatrici di età compresa tra gli 10 e i 30 anni e un'orchestra di 7 musicisti.[11]
Il centro storico di Santa Sofia d'Epiro, come quello di tutti i paesi arbereshe, è organizzato in Rioni. Esso inoltre è suddiviso in quattro parti: quella superiore, Drelarti, e quella inferiore, Drehjimi e quella per l'approvvigionamento idrico che trovano il loro ideale punto d'incontro nella fontana detta di stango eposta ad este e quella di moroiti posta ad oves rispetto al centro nevralgico del centro storico oggi detta Largo dei Vescovi. Luogo baricentrico tra La chiesa matrice edificata dal 1695 così come il palazzo arcivescovile. La chiesa fu inaugurata nel 1742 in stile Romanico con un'unica navata coperta da falde in travi di legno panconcelli e coppi. Oggi, la chiesa si presenta addobbata al rito greco-bizantino. La chiesa venne ristrutturata varie volte e negli anni 1976-1982 è stata affrescata in stile bizantino da Niko Gianakakis di Creta.
All'estremità orientale del paese sorge l'antica Chiesa di Santa Sofia[non chiaro] detta Qisha Vjeter, riedificata negli anni sessanta ed oggetto di ricerche anche dall'Ahnenerbe, mentre al lato Ovest è situata la Chiesa di Santa Venere. Rivolta verso il paese, a devozione della santa che doveva provvedere a tenere ben stabili le azioni di una faglia storica che li dietro l'abside correva, sul colle Monogò, è ubicata la Cappella del Santo Patrono di recente restaurata ed ampliata. Dietro l'antico Palazzo Vescovile, in Largo Trapeza, in luogo dei trappesi per i poveri, si trova il Municipio e il Museo del Territorio e del Costume Arbereshë.
Santa Sofia d'Epiro è un centro a economia prevalentemente agricola. Per questo motivo, la ricchezza del suo territorio è costituita dalle numerose contrade, più di 40, dove risiede gran parte della popolazione e dove si svolgono tutte le produzioni agricole. Il territorio di Santa Sofia ha un'estensione totale di circa 39 km², ha una morfologia tipicamente collinare e un'altitudine media compresa tra i 550 e i 750 metri s.l.m. La sua rete idrografica è costituita da numerosi torrenti, e i due corsi d'acqua più importanti sono il fiume Crati e il torrente Galatrella. Confina con i comuni di Bisignano a Sud-Ovest, di San Demetrio Corone ad Est, di Tarsia a Nord e Nord-Ovest. Le contrade più importanti e popolose sono: Cavallodoro, Acci, Grottile, Scesci, Gaudio, Mustica, Fravitta, Zarella, Pagliaspito, Zamadà, Gallice, Cacciugliera e Serra di Zot.
Nella toponomastica del centro antico sono contenuti i rioni storici che tracciano le tappe della storica e fiorente azione sociale degli abitanti del paese, ogni rione enuncia un momento storico e ne determina con il proprio appellativo l'operosità dei sofioti, poca attenzione è rivolta verso gli uomini eccellenti di cui si accennano e sono collocati nei posti e nei siti meno adatti. Molte strade mantengono vivo, ancora oggi, il ricordo dei luoghi da cui provennero nel XV secolo i primi esuli greco-albanesi. Alcune, invece, portarono i nomi dei cittadini sofioti che nei tempi passati si sono distinti nella cultura e nell'impegno politico e patriottico. Altre ancora testimoniano toponimi tipici della comunità arbëreshë che si mantengono ancora inalterati nella memoria storica degli abitanti del paese.
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